Repubblica Democratica del Congo – Un piccolo popolo che non ha paura della bontà e della tenerezza

Con tutta la Chiesa le Comunità di Sant’Egidio nel mondo hanno appena celebrato la Pasqua, un tempo liturgico che rivela la sfida che il male pone all’esistenza umana, ma anche le grandi energie di bene su cui discepoli pur poveri e deboli possono contare. Qualcosa di vero dappertutto, e forse ancor di più in alcuni scenari africani, ad esempio nella Repubblica Democratica del Congo.

E’ in un quadro spesso difficile che vivono ed operano le comunità presenti in quell’immenso paese, vasto quasi quanto l’intera Europa occidentale. Un contesto problematico, duro, violento. Non soltanto a Nord-Est, verso i Grandi Laghi, dove milizie ribelli e sbandati tengono sotto scacco la vita di milioni di civili indifesi. Ma anche nelle più “tranquille” province dell’Ovest e del Sud.

Eppure, sia nell’affollata e caotica Kinshasa, come anche nel vissuto incerto e nient’affatto lineare delle altre città congolesi, la proposta spirituale di Sant’Egidio, il suo Vangelo del servizio e della gratuità, si pone come un’alternativa umana e pacifica rispetto a un destino che vuole inghiottire tanti in una prospettiva violenta e disumanizzante.

Di “legge del più forte” o di “lotta per la vita” si può parlare in molti contesti congolesi. Una lotta all’interno della quale si è destinati a essere profittatori o vittime, o entrambe le cose. Una lotta che – privo com’è il paese di un valido sistema istituzionale, e avendo lo stato nei fatti abdicato al monopolio della violenza – rischia sempre di travalicare in qualcosa di esasperato, in un darwinismo sociale senza freni e senza pietà.

E’ ciò che il cittadino congolese ha ben presente, specialmente se vive nei grandi agglomerati urbani. A Kinshasa, una volta Kin la belle, oggi la poubelle – la ‘pattumiera’, nell’amaro gioco di parole conosciuto in tutto il paese – si elencano le sette regole per sopravvivere nella “jungla” della capitale, le regole che segue il kinois avvertito, e che invece lo yuma, l’uomo onesto, ma stupido, non conosce. Tra tali “comandamenti” esplicito è il secondo, Mwana muninga mawa te – in lingala ‘Ragazzo, non avere pietà di nessuno’[1] -. Un messaggio duro, spietato, da legge della jungla, appunto. Un messaggio ripetuto in una pluralità di forme e di occasioni.

E’ il messaggio veicolato, ad esempio, dal film Viva Riva!, del congolese Djo Tunda wa Munga. Ambientato a Kinshasa, una città in cui, come dice il trailer della pellicola, “ogni giorno è una lotta”, e “tutto è in vendita”, narra le vicende di un giovane furbo, ambizioso e violento – Riva appunto -, che torna nella sua città natale dopo degli anni passati all’estero, deciso a fare la bella vita, costi quel che costi. E’ il messaggio di cui si fanno forti le bande di giovani che vivono di piccole predazioni ai danni di chi incontrano e che non raramente si spingono sino all’omicidio pur di appropriarsi di qualche banconota, di un cellulare, di un orologio. I membri delle kuluna – così sono dette tali bande – seminano il terrore per le vie della capitale congolese, evidenziano la connivenza o l’impotenza della polizia, si guadagnano spazio sui mezzi d’informazione. Jeune Afrique ha recentemente[2] intervistato alcuni componenti di una kuluna, quella dei Leoni. Questi giovani, inquadrati secondo modalità paramilitari, duri nell’aspetto e nelle relazioni interpersonali, rivendicano il loro agire come una rivalsa di fronte a una violenza maggiore della loro: “‘Siamo quel che siamo perché lo stato ci ha abbandonato. In tanti non hanno nulla […]. Che fare allora? Che fare quando incontri quelli che se la passano bene?’ ‘Kobotola!’ rispondono tutti gridando, ‘Estorcere loro qualcosa’”.

Da tali parole emerge non soltanto una rappresentazione del mondo in cui la violenza è un circolo vizioso senza fine – e il fascino di poter essere una volta tanto attori, e non vittime, di tale ingranaggio perverso -, bensì pure la forza che ha il denaro nell’immaginario collettivo congolese (e non solo congolese, ovviamente). Da strumento di scambio esso si trasforma in un mito, in un idolo, cui è lecito offrire qualsiasi genere di sacrifici. E qui la memoria va al sacrificio di Floribert Bwana Chui, membro della comunità di Sant’Egidio di Goma, impiegato all’Office Congolais de Contrôle, incaricato di verifiche alla frontiera a tutela della salute pubblica, barbaramente ucciso nel luglio 2007 per aver rifiutato di accondiscendere a un tentativo di corruzione.

Certo, alcuni anni dopo quel 2007, lo spazio congolese è in via di rapida trasformazione. Il Congo, in particolare in alcune sue province, non è più uno stato in ginocchio, alla mercé di bande armate. Alcune infrastrutture vedono la luce, il mondo che conta è più vicino a Kinshasa o al Katanga – Lubumbashi, il capoluogo, offre una fotografia del Congo post-transizione, con la corsa allo sfruttamento delle risorse del sottosuolo non più guidata dalle logiche del conflitto tra le varie milizie, bensì inserita nella cornice della globalizzazione neoliberista e dell’emergere della Cina –, i soldi circolano con più facilità e velocità di prima, le cose sembrano mettersi bene per una piccola urban middle class, fasce più vaste della popolazione cominciano a sognare un’uscita dal vicolo cieco della povertà …. Eppure tutto ciò avviene parallelamente al crescere della violenza diffusa, in un quadro di persistente durezza di rapporti fra gli individui e fra i gruppi.

Ma c’è chi ha scelto e sceglie di non condividere tale durezza. C’è chi ha rifiutato e rifiuta di conformarsi alla violenza come metodo e come orizzonte. C’è chi ha inteso e intende la lotta per l’esistenza che sembra segnare il mondo congolese non nel senso di un conflitto a bassa intensità, di un generale homo homini lupus. Bensì nel senso di una tensione affinché la vita, quella propria e quella altrui, la vita di tutti, sia salvaguardata e riscattata.

E’ quanto accade a Kinshasa, nel quadro dei servizi per i poveri gestiti dalle Comunità di Sant’Egidio della capitale congolese. Servizi che assumono la connotazione e il valore di spazi liberati dalla violenza e dal materialismo, dalla durezza come consuetudine e come destino. Nelle cinque Scuole della Pace gestite da Sant’Egidio, a Ligwala, a Masina, a Mbanza Lemba, nel centro per i bambini di strada a Binza, nell’orfanotrofio di Mbudi, si insegnano non le leggi della jungla e della contrapposizione, bensì le regole della convivenza e della lingua. Con gli anziani che si vanno a trovare nell’istituto di Lingwala, nei quartieri di Bibwa e di Lemba, si condivide non il risentimento rabbioso di chi non ha abbastanza, bensì l’affetto e la simpatia di chi ha tanto da dare.

Ma è quanto accade anche a Lubumbashi, in altre Scuole della Pace, in altri servizi agli anziani, nonché a Kikwit (400 km a sud-est di Kinshasa), dove Sant’Egidio visita con regolarità la locale prigione, un istituto al di sotto di ogni standard di civiltà e di umanità: 165 detenuti stretti in due stanze e in un cortile, con a disposizione un bagno alla turca e un rubinetto, un luogo da cui uscire è difficile, anche dopo aver scontato la propria pena, ché bisogna in aggiunta lasciare all’amministrazione carceraria ed alle guardie un sacco di manioca, 28 dollari al prezzo di mercato.

Anche in questo luogo, dove la durezza e la predazione si fanno istituzione, i membri di una piccola comunità, con i loro limiti, con i loro poveri mezzi, non hanno paura di farsi vicini e amici dei detenuti, per essere i rappresentanti di un nuovo Congo, più civile e umano, per essere i discepoli di un Signore che è stato anch’egli incarcerato e torturato, per essere gli araldi di un tempo nuovo di simpatia, di cortesia, di amore, di tenerezza.

E’ quanto ha chiesto a tutti i credenti papa Francesco, nell’omelia di inaugurazione del suo ministero petrino, lo scorso 19 marzo: “Vorrei chiedere, per favore, […] a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo “custodi” […] custodi dell’altro […]; non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo! […] Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza!”. E’ quanto ogni comunità di Sant’Egidio, in ogni parte del mondo, più o meno difficile, Repubblica Democratica del Congo compresa, si sforza di essere: uomini e donne della bontà e della tenerezza.

 

 

[1] Cit. in J.-L. Touadi, Congo, Ruanda, Burundi. Le parole per conoscere, Roma 2004, p. 100.

[2] Postato sul sito internet il 20 febbraio scorso.

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Mbeya (Tanzania) – La Croce e i poveri al cuore della Quaresima

Le Comunità di Sant’Egidio di Mbeya (Tanzania del sud, a non molti km dal confine col Malawi e con lo Zambia) e dintorni si sono di recente riunite in un’affollata assemblea di metà Quaresima. Tema dell’incontro i passi da compiere lungo l’itinerario che porta alla Pasqua, la preghiera, il digiuno, l’elemosina, la misericordia, il servizio ai più poveri.

Il vescovo di Mbeya, mons. Evaristus Chengula ha voluto che l’assemblea si tenesse nei locali diocesani, proprio dietro la cattedrale, e ha presenziato l’incontro introducendo il confronto e benedicendo i presenti.

Mons. Chengula ci ha tenuto a ricordare la propria presenza a Roma lo scorso febbraio, nel quadro dell’annuale convegno dei vescovi per l’anniversario della Comunità. Ha sottolineato il valore dell’impegno di Sant’Egidio, che concretizza una delle acquisizioni forti del Concilio Vaticano II, ovvero la corresponsabilità dei laici all’interno della Chiesa. E ha avuto parole di simpatia e di vicinanza per l’amicizia che la Comunità vive con il mondo dei poveri, a Roma e in Tanzania.

Un’amicizia che Sant’Egidio vive a Mbeya insieme ai prigionieri del carcere minorile di Soweto, ai ciechi di Mbalizi, agli orfani di Simike, operando in comunione con la chiesa locale. Segni ulteriore di tale prospettiva comune saranno nei prossimi giorni la collaborazione nell’ambito della Commissione diocesana Giustizia e Pace e una serie di conferenze nelle varie università di Mbeya (tra queste la Saint Augustine, cattolica) per parlare del carisma della Comunità e del servizio ai poveri.

A Mbeya e in Tanzania, come dappertutto nel mondo, la Comunità di Sant’Egidio vive con le varie realtà diocesane e con gli altri movimenti ecclesiali la sfida che indica papa Francesco, quella di essere famiglia di discepoli che costruiscono una Chiesa “per i poveri”, che non dimenticano “la Croce del Signore”, che si sforzano di “aver cura di tutti […] con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono periferia del nostro” mondo.

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Un papa a Cipro: il libro di George Poulides ripercorre, con la visita di papa Benedetto XVI, la storia e la cultura del Paese

”Cipro e’ ponte tra Oriente e Occidente. Questo non e’ solo un libro che ci fa conoscere meglio un’isola ricca di storia e cultura, ma un diario d’amicizia che continua”. Lo ha detto il ministro per l’Integrazione e la Cooperazione internazionale, Andrea Riccardi, che del libro ha scritto la prefazione, nel corso della presentazione del volume  dell’ambasciatore di Cipro presso la Santa Sede, George Poulides, "Un papa a Cipro. Viaggio nella cultura e nella storia di un Paese" .

Il libro parte dalla storica visita, nel giugno 2010, di papa Benedetto XVI: il primo papa che si reca nell’isola.

Cipro, dal 2004 membro dell’Unione Europea, è l’estrema frontiera del Vecchio Continente con il Medio Oriente. Le sue vicende sono intrecciate da secoli alla cultura europea e, oggi, la «questione di Cipro», la sua drammatica divisione, l’«ultimo muro» del continente, resta una domanda aperta per l’Europa.

Ma Cipro è anche la porta del cristianesimo in Europa. Le sue radici cristiane affondano in epoca apostolica, risalgono al tempo in cui la predicazione di Paolo e Barnaba inizia a raggiungere anche i pagani. È da qui, dunque, che si avvia l’evangelizzazione dell’intera Europa. Proprio per questo il Papa, durante il suo viaggio, aveva sottolineato l’urgenza del dialogo tra cristiani cattolici, armeni, ortodossi e musulmani e invitato al superamento di quanto divide perché si possa vivere un’era di pace e di riconciliazione.

Il libro di George Poulides è una preziosa testimonianza della visita di Benedetto XVI: che egli inserisce nella storia e nella cultura del Paese. Come sottolinea Andrea Riccardi nella prefazione “Benedetto XVI a Cipro ha realmente voltato pagina su un decennio, il primo del XXI secolo, segnato dalla violenza e che, sull’altare dello scontro di civiltà, ha sacrificato risorse tanto ingenti da lasciare il mondo occidentale avvitato in una crisi economica con la quale dovremo misurarci ancora per anni. Da quell’isola il Papa ha spinto tutti a guardare con speranza al decennio che si apriva”.

George Poulides è il primo Ambasciatore residente della Repubblica di Cipro presso la Santa Sede, le Nazioni Unite e il Sovrano Militare Ordine di Malta.

I proventi della vendita del libro, edito dalle Paoline, saranno devoluti alla Comunità di Sant’Egidio per le sue attività di solidarietà con i poveri.


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Sant’Egidio e Giovani per la Pace: un nuovo appuntamento per dire no alla violenza

Non è la prima volta che si incontrano. Sono i Giovani per la Pace della Comunità di Sant’Egidio, studenti delle scuole superiori e universitari. Nelle ultime settimane abbiamo ricevuto tante notizie delle loro iniziative per contrastare un clima violento che si va diffondendo, anche a livello giovanile.

Gli Africa Flashmob (di cui abbiamo visto i video) e le assemblee "Siamo tutti romani" per favorire l’integrazione e contrastare ogni forma di xenofobia e di razzismo, hanno avuto grande successo, indicando come il desiderio di una società plurale e pacifica non sia solo di alcuni, ma nel cuore di tanti.

Ora tornano con una nuova convocazione: City for Life, per un mondo senza violenza, un’assemblea a cui prenderà parte, come testimone dei rischi della deriva violenta, anche un giovane texano di origini del Bangladesh, Rais Buhyian, vittima del clima di violenza e di odio scatenatosi negli Stati Uniti dopo l’11 settembre, fondatore di un’associazione che propone la riconciliazione e il perdono e si oppone all’uso della pena di morte.

L’appuntamento è all’ITIS Galilei, Via Conte Verde, 51 Roma, il 29 novembre alle ore 16. Facciamolo sapere a tanti!

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Giornata Mondiale dei malati di Alzheimer: una storia per sperare

Virginia viveva da sola, in due stanze in affitto. Entrando in casa, ti accoglieva la penombra di una lampadina fioca ed un odore di chiuso, di latte scaldato, di polvere.

Ormai da tempo per Virginia tenere in ordine la casa, ed anche se stessa, era diventato un problema: le capitava di indossare una gonna sporca senza accorgersene, di fare fatica ad infilare le chiavi di casa nella serratura, a trovare gli oggetti che le servivano. Si sentiva sempre più debole e sola. Fino a quando ce l’avrebbe fatta? Per rassicurasi cercava di negare la realtà: la pentola che non trovava più gliela avevano rubata i vicini, il frigorifero rotto non era necessario cambiarlo, e poi tutte quelle medicine servivano davvero? Lei non era malata, era sempre stata una donna forte, sana. Lei in casa sua aveva tutto, semmai mancava qualcosa era colpa dei vicini, che le volevano male: è facile approfittarsi di una donna sola! Ma glielo avrebbe fatto vedere a tutti: lei non era sola!

Così Virginia cominciò a trattare una bambola che teneva sul letto, una grande bambola, come le facevano un tempo, con il viso di coccio e il vestito di raso, come fosse una sua figlia.  La accudiva come fosse una bambina piccola, la cullava, le parlava, le dava il latte con il biberon, quando usciva la portava con sé: “E’ troppo piccola, non posso lasciarla da sola!” Era molto attenta a come “gli altri” guardavano lei e la sua ‘bambina’ , la bambola era anche diventata il modo per non essere più una povera vecchia invisibile, un modo per incontrare lo sguardo degli altri, come è avvenuto con alcuni giovani della Comunità di Sant’Egidio, che l’hanno conosciuta mentre camminava per la strada con la sua bambola in braccio. “Come si chiama? Maria”. Così hanno cominciato a parlare con lei, ad andarla a trovare nella sua casa, ad aiutarla nelle necessità della vita quotidiana senza scomporsi troppo per la presenza di ‘Maria’.

Le visite a casa di Virginia si moltiplicarono. Giorno dopo giorno, era sempre più chiaro che Virginia non riusciva più a compiere le azioni – anche le più semplici – della vita quotidiana da sola: come prendere le medicine giuste, se non ricordo che ore sono, e se le hai già prese? e come prepararsi da mangiare, se le ricette più abituali, quelle che Virginia cucinava così bene, sono come cancellate dalla mente? E dove trovare i vestiti, le scarpe, che la malattia nascondeva ogni giorno in luoghi sempre diversi e incogniti? Eppure Virginia cercava di non mostrare le sue difficoltà agli amici della Comunità di Sant’Egidio che gli erano diventati cari: non ricordava bene i loro nomi, ma nei loro visi riconosceva quell’amore che aiuta a vivere ed era felice di trascorrere del tempo con loro.

Virginia venne invitata a una piccola vacanza ai castelli romani, insieme ad altri anziani trasteverini. Da poco erano ultimati i lavori della casa famiglia per anziani di via Fonteiana. Una casa, donata alla Comunità di Sant’Egidio dal signor Manlio Isabelli, pensata per accogliere anziani in difficoltà. Virginia arrivò nella casa di via Fonteiana in un bel pomeriggio di Settembre. Le piacque tutto: il giardino con due palme, la palazzina anni Trenta, l’ambiente luminoso, pulito e sereno.

Subito successe un cosa imprevedibile: “Maria” venne semplicemente lasciata su di una sedia e dimenticata. E per Virginia iniziò una vita nuova: la presenza continua e delicata di amici ed operatori addolcivano le sue difficoltà. Le continue dimenticanze non pesavano più, le sue incertezze non erano motivo di giudizio, di derisione. Il mondo non era più popolato di "nemici" che nascondevano le cose, ma di volti amici di cui non era sempre chiaro il nome, ma – seppure diversi – avevano tutti la stessa espressione piena di affetto.

Virginia ha vissuto nella casa della Comunità di Via Fonteiana a Roma gli ultimi anni della sua vita. La malattia non ha vinto la sua gioia di vivere, anche quando la debolezza si è fatta più evidente.

Dipendere dagli altri, sempre di più, in tutto, non è stata una condanna, ma una condizione in cui più forte si è mostrato l’affetto di chi la circondava e che le ha comunicato la certezza di un amore che non finisce. Virginia questo lo ha capito bene. Certo, l’Alzheimer non le permetteva di spiegarlo con un discorso, ma la sua serenità – e anche la lunghezza dei suoi anni – hanno parlato a tanti della forze terapeutica dell’amore. E questo ne ha fatto anche una maestra: maestra di quell’abbandonarsi fiducioso all’amore degli altri, che nel Vangelo è espresso dall’esortazione di Gesù a farsi piccoli. 

Nella Giornata Mondiale dedicata ai malati di Alzheimer, ci è caro ricordarla, con l’affetto di sempre.

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Scutari – singolare celebrazione per il centenario dell’Albania: i giovani festeggiano con gli anziani istituzionalizzati. Gratitudine e alleanza tra generazioni.

Il 28 novembre, l’Albania ha celebrato i cento anni di indipendenza con grandi festeggiamenti in tutto il Paese. In quest’occasione, la Comunità di Sant’Egidio di Scutari ha organizzato una festa, con balli, canti e tanta amicizia, nell’Istituto Comunale dove vivono 75 anziani e disabili. Da vari anni, infatti, è cresciuta l’amicizia della Comunità con gli ospiti di questa struttura che, in molti casi, hanno alle spalle storie di solitudine, di povertà e di abbandono molte volte dovuto all’emigrazione dei parenti più stretti in vari Paesi europei.

In un momento in cui si celebra il concetto di “patria”, la Comunità ha voluto testimoniare che nelle nostre città e in Albania deve esserci posto per tutti, anche per i più poveri e per le persone "dimenticate". Tanti anziani che vivono nell’Istituto, infatti, sentono il peso dell’abbandono e della solitudine; alcuni di loro non sono autosufficienti e passano le loro giornate a letto senza incontrare nessuno.

A cento anni dalla nascita dell’Albania indipendente, l’amicizia della Comunità con gli anziani, vuole essere un patto tra generazioni per sconfiggere la tendenza ad emarginare gli anziani e ad abbandonare chi è più debole. Si registrano infatti, sempre più spesso, aumenti del numero di anziani e disabili in attesa di un posto in istituto.

La Comunità, nell’ amicizia e nell’incontro ha voluto testimoniare agli anziani albanesi il rispetto e la gratitudine per tante storie ricche di anni vissuti in condizioni spesso difficili lungo i quali non si è mai spenta la speranza e la fede trasmessa, anche grazie a loro, alle nuove generazioni.

   
   

 

 

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