Sant’Egidio in festa con i musulmani più poveri in occasione dell’ ‘Id al Fitr

I musulmani di tutto il mondo hanno appena celebrato l’ ‘Id al Fitr, la festa della “rottura del digiuno”, che segna la fine del mese sacro di Ramadan, dedicato al digiuno, alla preghiera e al soccorso dei poveri. 
La Comunità di Sant’Egidio ha espresso i propri auguri per questa ricorrenza a tutti i suoi amici musulmani, e ha voluto permettere la celebrazione dell’ ‘Id a quei poveri che non avrebbero avuto l’opportunità di farlo, tanto nel paesi musulmani, come in Indonesia – ed ecco la foto della festa dell’Iftar con i senza dimora, che pure in condizioni veramente difficili osservano scrupolosamente il digiuno -, quanto in Occidente – si veda la foto della cena di stile familiare che si è svolta nel Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria -.
“Grazie perché pensate a noi: siamo fratelli, cristiani e musulmani”, ha detto commosso un ragazzo egiziano in stato di fermo a Ponte Galeria.
E’ il senso, in effetti, di questo gesto di amicizia, vissuto in varie forme anche in altre parti del mondo dalle locali famiglie di Sant’Egidio, nello spirito del messaggio inviato qualche giorno fa, proprio per l’ ‘Id al Fitr, dal Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso: “Lavoriamo insieme per costruire ponti di pace e promuovere la riconciliazione. Possa la nostra amicizia ispirarci sempre a cooperare nell’affrontare le numerose sfide [che abbiamo di fronte] con saggezza e prudenza. In tal modo potremo aiutare a ridurre le tensioni e i conflitti, facendo progredire il bene comune. Dimostreremo pure che le religioni possono essere sorgente di armonia a vantaggio di tutta la società. Preghiamo che la riconciliazione, la giustizia, la pace e lo sviluppo rimangano le nostre prime priorità, per il benessere ed il bene dell’intera famiglia umana”.

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Sant’Egidio lavora per costruire ponti di rispetto e di pace tra le religioni

Nei giorni scorsi Pakistan e Kenya sono stati insanguinati da una violenza che si è definita ‘religiosa’. L’Asia e l’Africa, continenti in cui fedi diverse vivono fianco a fianco da secoli, sono tra le aree del pianeta chiamate a disegnare i tratti del futuro. Sarà possibile vivere insieme tra genti differenti per credo e tradizioni?
Di fronte al sangue versato, alla sfida che la violenza e un terrorismo di matrice religiosa pongono alla civile convivenza e alla coscienza del credente, di chi sa che ‘Pace’ è uno dei nomi di Dio, la risposta, come ha voluto sottolineare anche papa Francesco, è quella della preghiera, del dialogo, della costruzione di ponti. 
Concludendo la sua visita pastorale a Cagliari, informato dell’attentato di Peshawar, in Pakistan, il papa ha esortato a edificare “un mondo migliore e di pace”: “Oggi in Pakistan, per una scelta sbagliata, di odio, di guerra, sono morte 70 persone. Questa strada non va, non serve. Solo la strada della pace serve, che costruisce un mondo migliore. Ma se non lo fate voi non lo farà un altro. Questo è il problema, e questa è la domanda che vi lascio”. E ha aggiunto: “La Madonna ci aiuti sempre a lavorare per un mondo migliore, a prendere la strada della costruzione, la strada della pace, e mai la strada della distruzione e la strada della guerra”.
E’ la strada che la Comunità di Sant’Egidio sente di percorrere. Guardando al prossimo appuntamento di preghiera per la pace, “Il coraggio della speranza”, che si terrà a Roma dal 29 settembre al 1° ottobre. E a un lungo lavoro, svolto negli anni, di costruzione di rispetto reciproco, di vicinanza, di collaborazione, tra uomini e donne di diverse religioni, ma in particolare tra cristiani e musulmani.
Guardiamo, per fare qualche esempio, a quanto organizzato dalle comunità di Sant’Egidio in tanti contesti, europei, asiatici e africani nel mese di Ramadan, tra luglio e agosto scorsi, e citiamo dal sito, www.santegidio.org. 
In Pakistan: “A Sargodha è stata preparata una cena di ‘Id al-Fitr con anziani e bambini poveri. Erano circa 70 invitati, molti hanno benedetto la Comunità che ogni anno si ricorda di loro per la festa. Anche a Lahore, recentemente teatro di violenze contro i cristiani, Sant'Egidio ha vissuto questo segno di pace e di riconciliazione”.
E in Indonesia: “Il mese di Ramadan è un mese benedetto per i musulmani. Come negli anni precedenti la Comunità di Jakarta ha organizzato un evento congiunto per gli amici di strada e i bambini della Scuola della Pace. La grande festa si è tenuta nella Biblioteca Nazionale. E a ogni amico di strada sono stati donati gli abiti per la preghiera: parei per gli uomini e mukenah per le donne”.

 

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Gulu (Uganda) – La storia di Ojey: come la Scuola della Pace guarisce le ferite della guerra

Ojey (non è il suo nome, ma lo chiameremo così) è cresciuto in un tempo difficile per il Nord Uganda.
La guerra civile terrorizzava la popolazione, e le zone rurali, soprattutto di notte, erano ostaggio di violenze e sequestri. Per bambini e adolescenti gli incubi tornavano a ogni nuova notizia di rapimento. Ogni sera erano in centinaia a muoversi coi loro fagotti dai villaggi acholi per trovare una sistemazione più sicura nelle strade affollate di Gulu.
Ojey aveva sette anni. Abitava alle porte di Gulu con la famiglia e non aveva bisogno di spostarsi la notte. Almeno così credeva, fino a quando una sera i ribelli entrarono nella sua casa e gli uccisero i genitori.
Ojey non racconta molto di quanto accaduto quella notte
, per vari anni si è chiuso in uno stretto riserbo. 
Fatto sta che il bambino si ritrova da solo. Si aggira per le vie di Gulu, si arrangia come può. Si unisce ad altri bambini e ragazzi di strada.
Un giorno, però, si ferma davanti alla Scuola della Pace della Comunità di Sant’Egidio. Lo fa per curiosità. Ma poi sono tutti gentili con lui. Gli piace fermarsi, guardare quel che succede, fermarsi a leggere e a scrivere.
Alla Scuola della Pace diviene una presenza fedele, puntuale. Conosce pure gli amici italiani della Comunità e scrive loro frequentemente. In ogni lettera il suo inglese migliora e anche le sue parole e i suoi pensieri si fanno più chiari, come se uscissero da un passato buio e doloroso e guardassero a un futuro diverso.
Scrive: “Noi Giovani per la Pace di Gulu, in Uganda, siamo molto contenti di comunicare con voi tramite questa lettera. Come state? Noi bene. E con l’amicizia potremo crescere ancora. Vogliamo chiedervi: Come potremo crescere noi giovani di diverse parti del mondo? E come potremo rendere migliore il mondo? Da parte nostra noi lo facciamo attraverso le nostre riunioni sul Vangelo, le nostre preghiere, visitando i malati negli ospedali, i prigionieri, aiutando i poveri e gli anziani. Attraverso tutto questo potremo rendere migliore il mondo. Il mio sogno è cambiare il mondo, perché gli uomini non debbano più soffrire a causa della povertà e della violenza”. 
Grazie all’aiuto ricevuto nell’ambito del programma di adozioni a distanza di Sant’Egidio, Ojey ha potuto iniziare a studiare, ha fatto progressi importanti. C’è stato molto da recuperare, ma lui si è impegnato tantissimo. 
Per il resto c’è la grande passione del calcio, cui dedica il tempo libero, il tifo per il Chelsea – ma ai mondiali O. è un grande tifoso dell’Italia! -. Ma soprattutto la possibilità di un futuro diverso: a breve Ojey inizierà una scuola professionale per imparare a fare il meccanico.

 

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Uno straordinario vivere. Un ciclo di incontri alla Luiss

"Abbiamo imparato cose che nessun libro ti insegna". E' questo uno dei commenti raccolti dopo il primo incontro del ciclo "Uno straordinario vivere", promosso dagli universitari di Sant'Egidio. Grazie alla collaborazione di alcuni docenti, a marzo e aprile nelle aule universitarie della "Luiss – Guido Carli" si alterneranno testimoni della solidarietà e persone impegnate nell'integrazione e nella pace.  

Protagonista dell'incontro "La città degli invisibili", tenutosi lo scorso 14 marzo, è stato Remigio S., un ex senza fissa dimora, amico di lunga data degli universitari di Sant'Egidio. Sollecitato dalla curiosità del pubblico e del docente che ospitava l'incontro, Remigio ha rivelato la formula semplice di una vita felice e piena di senso: amicizia e fiducia che gli altri sono una risorsa e non un nemico da cui difendersi.

 

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Il caso Mozambico: quando la pace si può fare. A 20 anni dalla mediazione della Comunità di Sant’Egidio

pace in Mozambico 4 ottobre 1992  Goncalves, Raffaelli, Riccardi, Zuppi, Comunità di Sant Egidio trattative di pace per il MozambicoEra il 4 ottobre 1992, giorno di San Francesco, quando i rappresentanti delle parti in lotta in Mozambico, Frelimo e Renamo, firmarono a Roma un’accordo di pace che poneva fine ad una guerra civile durata per 18 anni dopo l’uscita dei portoghesi. Da quel giorno il paese non ha più visto scontri, si è trasformato in una repubblica democratica ed ha avuto regolari elezioni. Lo sviluppo economico è tra i più interessanti dell’Africa subsahariana. É meta di turismo per gli appassionati del continente, nonché oggetto di studio fra i “peace-builder ” globali per quella peculiare forma di mediazione portata avanti dalla Comunità di Sant’Egidio con successo.

Come ha fatto questa ex colonia portoghese a ricostruire il paese e mantenerlo in pace senza riprendere in mano le armi, come purtroppo tragicamente accade, rispettando gli accordi di Roma? Le celebrazioni di questi primi 20 anni saranno senz’altro occasione per dare una risposta alla domanda, in Mozambico e altrove.
Certo, il paese ha ancora molti problemi: più della metà della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno e l’Aids è molto diffuso (anche questo curato da Sant’Egidio con il programma Dream); la speranza di vita è sotto i 50 anni e la violenza urbana sfocia talvolta in episodi di linciaggio. Come gran parte del continente africano, è al di fuori dagli interessi dell’occidente se non per le sue riserve di gas naturale.

Si può allora fare festa? Sicuramente. Perché in questi 20 anni il paese si è completamente trasformato ed è cresciuta una generazione di giovani che non ha conosciuto il conflitto. In questo periodo sono stati fatti incontri nelle scuole con i testimoni di quella guerra civile, per non dimenticare il dramma ed educare le nuove generazioni alla responsabilità della pace. Ed è stato anche lanciato un Festival musicale panafricano per il miglior pezzo originale sulla ricorrenza (si può anche votare online sul sito http://www.singafrika.org/).
Vent’anni di pace sono un anniversario quasi d’argento che val la pena festeggiare. Ricordando che sempre si può fare qualcosa per la pace, con un pensiero alla Siria o ai tanti paesi in guerra.

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Educazione alla pace nei villaggi del Nord dell’Albania

Grazie ai giovani della Comunità di Sant’Egidio venuti da Genova, Pavia e altre città del Nord Italia

 

All’inizio di agosto, quaranta giovani della Comunità di Sant’Egidio di Genova e Pavia hanno vissuto una settimana di solidarietà con i bambini di alcuni villaggi nel nord dell’Albania e con i minorenni detenuti nel carcere di Shenkoll.

L’amicizia tra la Comunità e i ragazzi di questi villaggi dura da molti anni, con visite a gennaio e ad agosto e un lavoro di educazione alla pace e al vivere insieme che ogni estate coinvolge circa cinquecento bambini.

In questi ultimi mesi le difficili condizioni economiche e la disoccupazione giovanile hanno causato un aumento della violenza nei contesti urbani come in quelli rurali, con un numero crescente di omicidi, alcuni dei quali legati al kanun, il codice consuetudinario che regola anche la vendetta.

Alcuni mesi fa a Barbulloje – un villaggio a poca distanza da Lezhe, popolato da famiglie provenienti dalle montagne del Nord – un uomo malato di mente, accusato di infastidire la popolazione locale, è stato ucciso con una raffica di fucile. «Era l’unica strada – hanno commentato in tanti – con uno come lui non c’era altro da fare».

Di fronte ad episodi come questo, i bambini dei villaggi di Barbulloje, Shkemb I Kuqe, Malecaj, sono stati coinvolti in attività che ruotavano attorno al tema della pace. Tutti – soprattutto i ragazzi più grandi – hanno discusso del vivere insieme, della condizione dei disabili, della difficoltà del perdono.

Un appello per la riconciliazione

Alla fine della settimana, i ragazzi hanno voluto redigere un appello per coinvolgere il villaggio nello sforzo di trovare delle strade diverse dalla violenza per risolvere i problemi. Alcuni hanno voluto esprimere il loro stupore di fronte al loro stesso cambiamento: «all’inizio – ha spiegato Dorian – non riuscivamo nemmeno a fare un gioco senza fare confusione: ora siamo capaci di parlare insieme e di scambiarci opinioni. Questo mi sembra incredibile».

Tre grandi feste di paese con musica, giochi e cibo hanno concluso la settimana. Tutti hanno fatto la loro parte: chi ha curato l’organizzazione, chi ha gestito la musica, chi ha portato un cocomero o del byrek. Davanti a tutto il villaggio radunato per la festa, i ragazzi hanno voluto leggere il loro appello e consegnarlo solennemente alle autorità politiche e religiose: «abbiamo capito che la violenza è una catena – hanno spiegato – che nasce dal nostro sangue caldo.Ma anche il perdono e la pace sono una catena. Quello che serve è solo qualcuno che inizi: noi, giovani albanesi, vogliamo essere quelli che iniziano a costruire la pace. Con i fatti e non con le parole».



Si fa scuola in carcere

Anche il corso di lingua italiana organizzato nello stesso periodo nel carcere di Shenkoll ha significato un incontro della Comunità con i dolori e le speranze dei giovani albanesi.

Gli studenti sono stati una ventina di ragazzi di sedici-diciassette anni, reclusi in attesa di giudizio nella sezione minorile di questo carcere, che è uno dei più grandi dell’Albania. Si tratta di giovani di diverse parti del paese, alcuni detenuti a causa di piccoli furti, altri accusati di omicidio. Nelle loro storie si legge tanto del senso di oppressione dei ragazzi di questo paese, stretti tra il desiderio di un futuro migliore e la mancanza di opportunità, in un tempo di crisi che ha reso impraticabile anche la strada dell’emigrazione.

«Io studiavo al liceo – ha spiegato Fran, che viene da Tirana – ma quando mi hanno proposto una strada per avere finalmente un po’ di soldi in tasca ho detto di sì, e adesso mi ritrovo qui dentro, forse per dieci anni».

Da due anni i missionari rogazionisti accompagnano la Comunità a incontrare i detenuti adulti e minorenni, per riempire il vuoto di attività in una struttura in cui ai detenuti non è proposta nessuna occupazione. Quest’estate la direzione del carcere ha accettato di far entrare una piccola delegazione per una settimana tutti i giorni, coinvolgendo i più giovani in un breve corso di lingua.

I ragazzi hanno seguito le lezioni con grande attenzione, tra lo stupore del personale, che si è lasciato coinvolgere nel clima di simpatia. La cosa che ha più colpito i detenuti, però, è stata la scoperta di un’amicizia gratuita, che non è mossa da interessi materiali.

Alla fine della settimana di lezioni, ogni studente ha affrontato l’esame con la tensione delle grandi occasioni. A ciascuno sono stati consegnati l’attestato ed alcune foto che hanno conservato con grande attenzione, ringraziando con solenni benedizioni.

 

 

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