Nei giorni scorsi si sono ricordati con momenti di festa, di testimonianza, di dibattito, i 30 anni delle Scuola di Lingua e Cultura della Comunità di Sant’Egidio in molti dei luoghi in tutta Europa in cui le locali realtà del movimento ecclesiale svolgono tale servizio all’integrazione dei “nuovi italiani” e dei “nuovi europei”. A Roma, a Napoli, a Novara, a Barcellona, etc., ci si è chinati su una storia di amicizia e di inclusione a vantaggio dei tanti nuovi arrivati dal Sud del mondo in Europa, ma anche dei cittadini del Vecchio Continente.
La scuola, infatti, oltre a fornire una chiave d’accesso nel nuovo mondo che il migrante si trova a esplorare, a facilitargli la ricerca di un lavoro e di una sistemazione più dignitosa, è anche lo strumento principe grazie al quale si riesce a passare sopra le differenze, a scoprire nell’Altro il Simile, a trovare un terreno comune d’incontro che allontani le tentazioni e rischi della contrapposizione. La scuola è il fronte sul quale si vince la battaglia dell’integrazione e della convivenza tra uomini e donne differenti in un mondo globale, in un tempo liquido.
Le parole pronunciate da papa Francesco all’Angelus di domenica scorsa – che si riferivano alle tensioni fra residenti e immigrati recentemente registratesi a Roma e in altre città -, “La comunità cristiana si impegni in modo concreto perché non ci sia scontro, ma incontro. È possibile dialogare, ascoltarsi, progettare insieme, e in questo modo superare il sospetto e il pregiudizio e costruire una convivenza sempre più sicura, pacifica ed inclusiva”, sono l’indicazione preziosa di un percorso di buon senso e di saggezza. Lungi dall’attardarsi ad avvelenare i pozzi della convivenza è ora di incamminarsi su una strada che può restituire tessuto e prospettiva alla vita di contesti urbani pur difficili quali quelli delle grandi città europee