A un anno dalla beatificazione l’azione di don Pino Puglisi contro la mafia

Il 21 marzo scorso, nella sala convegni della Comunità di Sant’Egidio, a Roma, cristiani di varie confessioni, presbiteri e non, si riunivano per una giornata di studio dedicata alle “periferie umane ed esistenziali”, intendendo leggerle “alla luce del Vangelo”, tenendo presenti la visione e l’impegno di tanti testimoni.
In quel contesto un sacerdote della Comunità di Sant’Egidio, don Angelo Romano, rettore della basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, dove sono custodite memorie e reliquie dei martiri del XX e del XXI secolo, aveva presentato la figura di don Giuseppe Puglisi, ucciso a Palermo dalla mafia nel settembre 1993.
Beatificato a fine maggio 2013, don Pino Puglisi è il primo martire della mafia, una figura e una storia cui sarà giocoforza ispirarsi in futuro, tanto sul piano dell’azione pastorale in tante periferie che vivono l’incubo della presenza mafiosa e della violenza diffusa, quanto su quello della santità canonizzata.
Di quella relazione, pubblichiamo oggi, a poco più di un anno di distanza dalla beatificazione di Puglisi, qualche stralcio:
“Perché la mafia decise di uccidere don Puglisi? Chi era?”. 
“Don Puglisi nacque a Palermo, nel 1937, nello stesso quartiere Brancaccio dove venne ucciso 56 anni dopo. Era un bambino della periferia di una città ferita dalla guerra. […] Giovanissimo, decise di farsi prete, [agendo prima] in un quartiere palermitano di baracche, chiamato ‘Scaricatore’, poi a Godrano, un’altra periferia, un piccolo paese vicino Palermo, mondo di gente povera, legata a fazzoletti di terra, di emigranti, di gente analfabeta, di liti tra famiglie che sfociavano in violenze, dove regnava una cultura della vendetta, lo stesso humus culturale della mafia”.
“[…] Dopo otto anni di lavoro lo richiamarono a Palermo. Come professore di religione in un liceo importante e, dal 1990, come parroco di San Gaetano al Brancaccio, il suo vecchio quartiere. Era una parrocchia poverissima. La chiesa, piccola, era pericolante. Le campane non si potevano usare. Non c’erano locali per fare riunioni. Brancaccio, era – ed è – una quartiere povero: molti disoccupati, soprattutto molti bambini che non vanno a scuola. Era una delle zone di Palermo più soffocate dalla presenza mafiosa”. 
“La mafia non è solo una organizzazione criminale. Ha copiato lo stile delle società segrete ottocentesche, costruendo in parallelo una sua ideologia e una sua strategia di azione. La mafia cerca consenso presentandosi come istituzione alternativa allo Stato, capace di risolvere i conflitti, di fare assistenza sociale, di garantire la sicurezza. Al tempo di Puglisi il controllo di Cosa Nostra su Brancaccio era totale, come una vera sovranità clandestina. A Brancaccio, del resto, i simboli dello Stato non esistevano: non c’era scuola media, presidio sanitario, uffici del Comune, commissariato. Brancaccio doveva restare luogo dell’insicurezza, dell’assenza dei diritti e delle istituzioni”. 
“[…] Prime vittime di questo ‘ordine mafioso’ erano i bambini. Don Pino scelse di occuparsi innanzitutto di loro: erano violenti, insofferenti a qualsiasi tipo di regola, pronti a sopraffare i più deboli, rifiutando di riconoscere le proprie colpe anche palesi, con il culto della furbizia e della doppiezza. Questi bambini erano il ‘vivaio’ a cui la mafia attingeva per organizzare i suoi ranghi. Don Puglisi decise di aprire per questi bambini il Centro ‘Padre Nostro’, con delle suore che davano loro un’educazione differente”. 
“Puglisi era un educatore cristiano con grandi risorse spirituali e culturali. A chi osservava che anche la pazienza ha un limite rispondeva: ‘Se è pazienza non ha limiti’. […] La sua azione era profondamente cristiana, diceva ‘Non sono un sociologo, sono solo un uomo che lavora per il Regno di Dio’”. 
“[…] Puglisi conosceva bene la mentalità mafiosa, ed aveva capito che, per sopravvivere, la mafia aveva bisogno di mimetizzarsi, di nascondersi.  In un testo cui anche Puglisi aveva dato il suo contributo si legge: ‘Quella mafiosa è a suo modo una cultura, un’etica, un modo di pensare, un criterio di giudizio, […] un linguaggio, un costume. E, malgrado tutte le mimetizzazioni, si tratta di una cultura e di una mentalità antievangelica e anticristiana, addirittura, per tanti aspetti satanica. Essa falsa termini che indicano valori positivi come famiglia, amicizia, solidarietà, onore, dignità; li distorce e li carica di significati diametralmente opposti a quelli cristiani allo scopo di dominare con la prepotenza, realizzare complicità nel male, affermazione di sé, dipendenza, asservimento e disprezzo dell’altro, prestigio basato sul potere e la ricchezza, ricercata con tutti i mezzi’”.
“Puglisi, con la sua azione di catechesi, di predicazione, di educazione dei minori, riduceva la forza della mafia, unendosi allo sforzo di tutta la Chiesa. Uno sforzo il cui culmine fu toccato dalla visita di Giovanni Paolo II in Sicilia, nel maggio 1993. Il papa giunse in Sicilia dopo alcune stragi di mafia, incontrò i familiari di molte vittime, decise di pronunciare frasi molto chiare ad Agrigento, invitando i mafiosi alla conversione, e ricordando loro che sarebbe venuto un giorno il giudizio di Dio sul loro operato”.
“La risposta di Cosa Nostra non tarda. Il 27 luglio 1993 tre bombe esplodono nella notte, una a Milano e due a Roma, una presso la cattedrale di San Giovanni in Laterano, l’altra presso la chiesa di San Giorgio in Velabro. Cosa Nostra mostra il suo volto terroristico, e guarda con crescente ostilità alla Chiesa. Meno di due mesi dopo l’attentato al Laterano, viene assassinato don Puglisi. Le sue parole davano fastidio. Lui predicava il Vangelo, diceva dal pulpito ai mafiosi: ‘Venite, parliamoci. Chi usa la violenza non è un uomo, chiediamo a chi ci ostacola di riappropriarsi dell’umanità’. Puglisi aveva mosso le coscienze di quanti vivevano sottomessi o irretiti da Cosa Nostra. Secondo un testimone diretto, il capo della mafia dell’epoca, Bagarella, si decise di ucciderlo perché ‘prendeva questi bambini, cercando di dire loro ‘Non mettetevi con i mafiosi’, e comunque operava per cercare di levare la gente dalle mani mafiose’”. 
“Quell’uomo disarmato, mite, aveva messo paura al capo della mafia. […] Oggi il suo quartiere è cambiato. La gente ha reagito al suo omicidio: era troppo conosciuto come un prete santo, esemplare […]. Tanti bambini di Brancaccio guardano a lui come a un esempio. Come per molti martiri, la sua storia sembra raccontare una sconfitta, in realtà segna una vittoria nel profondo”. 

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Douala, Camerun – Sant’Egidio festeggia i dieci anni di servizio ai poveri

Un'immagine della festa che ha riunito a Douala le comunità di Sant'Egidio del Camerun per ricordare i dieci anni del servizio ai poveri nel paese.

Presenti delegazioni di anziani e di ciechi amici della Comunità.

All'incontro si è sottolineata l'importanza del lavoro di costruzione di una famiglia che salvi tutti insieme, senza scartare o lasciare indietro nessuno, e della preghiera per la pace.

 

 

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Biografia di Andrea Riccardi

Biografia

Storico, accademico, attivista, autore di molti studi sul tema del rapporto tra differenti mondi religiosi. Soprattutto, Andrea Riccardi è un uomo che ha scelto di impegnarsi in prima persona per gli altri.

Andrea Riccardi

Nato a Roma il 16 gennaio 1950, nel 1968, in pieno periodo di fermento sociale e culturale del post Concilio Vaticano II, Andrea Riccardi si riunisce con un gruppo di liceali, come lui stesso, per ascoltare e mettere in pratica il Vangelo. Da questo primissimo nucleo nasce la Comunità di Sant’Egidio, di cui Riccardi è il fondatore.

Dal 1973, si dedicò unicamente alla Comunità di Sant’Egidio, che crebbe sempre di più. L’opera della comunità era, ed è tutt’oggi, di impegno per i più poveri, di comunicazione del Vangelo, di dialogo tra le religioni e di ricerca della pace per tutti i popoli del mondo.

In qualità di fondatore della Comunità di Sant’Egidio, e per il suo grande impegno per la pace e per la tutela degli emarginati, sono diversi i riconoscimenti e le onorificenze che gli sono state tributate, come il Premio per la pace dell’Unesco Felix Houphuet-Boigny e la Légion d’Honneur della Repubblica francese.

Al suo impegno con la Comunità di Sant’Egidio, Adrea Riccardi ha sempre affiancato l’attività accademica: dal 1981 è professore ordinario e ha insegnato all’Università di Bari, alla Sapienza e a Roma Tre (dove è oggi professore di Storia contemporanea). È inoltre autore di molti saggi sul cattolicesimo contemporaneo.

Con l’incarico di ministro per la Cooperazione Internazionale e l’Integrazione, Andrea Riccardi, nel 16 novembre del 2011, entrò a far parte del governo tecnico di Mario Monti.

Prodigarsi per gli altri, aiutare gli emarginati, impegnarsi per la pace: sono questi i valori che hanno sempre guidato e continuano a guidare l’operato di Andrea Riccardi.

Premi e riconoscimenti:

Premio Balzan per la Pace e la fratellanza tra i popoli

Premio Carlo Magno

Collegamenti:

Sito Ufficiale Andrea Riccardi

Notizie dalla stampa internazionale

Ministro per la Cooperazione e l’integrazione

Biografia Ministro Andrea Riccardi

Andrea Riccardi WikiQuote

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Roma, Italia – I dieci anni del programma “W gli anziani”

Si è svolto a Roma – cornice uno dei più antichi ospedali della capitale italiana, il San Gallicano, risalente al Settecento – un confronto istituzionale e non sui dieci anni di “W gli anziani”, programma medico-assistenziale innovativo e a vocazione capillare, mirato a rompere la solitudine degli ultrasettantacinquenni garantendo loro una migliore qualità di vita e di salute.
“W gli anziani” è stato avviato dalla Comunità di Sant’Egidio in tre quartieri della Città Eterna. Gli anziani ivi residenti sono stati soggetto di un accompagnamento e di un monitoraggio costanti. Nel quadro di quello che potrebbe diventare un modello conveniente, sostenibile da un punto di vista economico – prevenire costa meno che curare -, ma pure capace di venire incontro al bisogno di tanti anziani la cui principale malattia – alla fin fine – è la solitudine, la cui principale cura è l’amicizia. “W gli anziani” segnala il traguardo cui tutta la sanità pubblica potrebbe puntare, per vincere, pur con un uso ridotto di risorse finanziarie, molte delle sfide dovute all’invecchiamento.
Presentando il programma davanti al ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, il presidente della Comunità di Sant’Egidio Marco Impagliazzo, ha sottolineato come esso dia “una risposta vera ai problemi dell’oggi, perché mette in piedi non solo una rete di solidarietà, bensì pure quella cultura nuova e solidale di cui l’Italia ha bisogno per uscire dalla crisi”.
Il programma è infatti animato dallo spirito che ispira tutti i servizi di Sant’Egidio agli anziani: il sogno è quello di non lasciar soli i più anziani, di non spezzare il legame tra le generazioni, di non permettere che i più deboli vengano scartati dal corpo vivo della società. Al tempo stesso, però, esso si configura anchecome un approccio di livello medico e professionale: indicando il passaggio a servizi personalizzati e domiciliari si muove lungo la medesima prospettiva dei più avanzati sistemi sanitari del mondo. 

 

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Kenya – Un sogno di fraternità e di pace

Nella stagione di polarizzazione etnico-identitaria che il Kenya ha recentemente vissuto, Sant’Egidio si è sforzato di coltivare quel sogno di fraternità e di pace che è l’anelito di ogni comunità cristiana, ma anche il riferimento ideale delle stesse popolazioni kenyote.

L’inno del paese parla di undugu (fraternità, in swahili) e di amani (pace). Il motto nazionale è Harambee, ovvero un agire comune, con uno scopo nobile e alto, un convergere insieme, un tirare ed attirare a vantaggio del bene di tutti.

Eppure il Kenya ha conosciuto tempi difficili, di contrapposizione e di violenza: i suoi cittadini si sono divisi, si sono combattuti. E’ stata la storia delle elezioni presidenziali del 2007, e dei successivi disordini, che hanno provocato quasi 1000 morti e 600.000 rifugiati interni.

Un esito del genere era temuto anche per le elezioni del marzo scorso. La società kenyota e fedeli di ogni religione hanno sperato e pregato per un confronto civile e pacifico. Le comunità di Sant’Egidio hanno organizzato preghiere e marce per la pace.

I risultati finali dello scrutinio sono stati diffusi a fine mese. E, mentre in tanti ritenevano più prudente muoversi verso i propri villaggi natali, per non trovarsi in una zona etnicamente “sbagliata” al momento della proclamazione definitiva dei risultati, i giovani e gli adulti della Comunità si radunavano insieme a Nakuru per la Pasqua, per essere uniti al di là di ogni differenza etnica o politica.

Per fortuna l’elezione al primo turno del nuovo presidente, Uhuru Kenyatta, è stata sì accompagnata da alcuni incidenti isolati e da qualche contestazione, ma senza che si corresse il rischio di una nuova guerra civile. Bene o male è stata la vittoria della ragionevolezza, dell’unità, della pace.

Sant’Egidio vive tale tensione all’unità ed alla pace per tutto l’anno. Nelle tante località in cui è presente – oltre a Nairobi e a Nakuru, anche Eldoret, Kisumu, Mombasa, Homa Bay -, nel servizio ai poveri che viene prestato a prescindere da ogni diversità di origine, di storia, di religione – una decina le Scuole della Pace sorte in questi anni, mentre in cinque città si vive con passione una bella amicizia con gli anziani, e a Nakuru ed Eldoret si visitano i prigionieri dei locali carceri femminili -.

Il servizio diviene comunanza di spirito, di ideali, di sogni, al di là di tutto, al di là di ogni tentazione etnico-identitaria; diviene scelta di lavorare insieme per un paese unito da un destino comune per popolazioni e culture differenti. E’ così che si costruisce la civiltà del vivere insieme, quel futuro di fraternità e pace che i padri della decolonizzazione avevano intravisto 50 anni fa per i loro paesi e per l’intero continente

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Aleppo (Siria) – La Comunità di Sant’Egidio per fermare l”inferno” della guerra. Ora più che mai #savealeppo!

La settimana scorsa un importante convegno organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio a Bari, con la partecipazione di qualificatissimi esponenti delle Chiese cristiane del Vicino Oriente, alla presenza di rappresentanti politici e diplomatici, era stato un modo di rimettere al centro dell’attenzione internazionale la tragica situazione della Siria, sconvolta da quattro anni da una guerra civile che ha fatto decine di migliaia di vittime e centinaia di migliaia di profughi, nonché l’occasione per invitare alla creazione di “safe havens”, aree sicure per i cristiani e le altre minoranze che vivono nella regione. Si tratta infatti di fermare l’esodo, “assicurando condizioni di sicurezza ai cristiani che decidono di restare e che devono essere protetti”, ma anche aiutando i paesi a maggioranza musulmana ad affrontare e risolvere il problema dell’estremismo, perché tutti hanno da guadagnare dal pluralismo e dalla tolleranza. 
Questa settimana Sant’Egidio rilancia con ancora maggior forza l’appello “Save Aleppo”, di cui si è fatto promotore ormai diversi mesi fa il suo fondatore Andrea Riccardi. Aleppo e il suo circondario potrebbero essere uno di questi “safe haven”, non un ghetto, ma un luogo di rifugio e di protezione, segno profetico di una convivenza che è stata e può tornare ad essere la cifra di un’area così significativa per la stabilità del mondo. 
Ci si augura che tale insistenza trovi eco e accoglienza in molti decisori della politica e in tante sedi internazionali. Si moltiplicano del resto sui media, italiani e non, le segnalazioni di come la situazione sul terreno continui a deteriorarsi, giungendo a livelli di estrema drammaticità. L’ “Avvenire” di ieri ha titolato “Le catacombe di Aleppo”, dedicando l’editoriale allo stato in cui versa l’antichissima città siriana, i cui abitanti sono costretti a vivere sottoterra per i bombardamenti che stanno finendo di distruggerla. Ma anche il nuovo rapporto di Amnesty International insiste sulle insopportabili sofferenze inflitte alla popolazione aleppina. “Ho visto bambini senza testa e brandelli di corpi ovunque. Era proprio come avevo immaginato dovesse essere l'inferno” ha raccontato un testimone che vive nel quartiere di al-Fardus. E un altro ha parlato di “orrore allo stato puro”. Oggi più che mai è tempo di dire #savealeppo …. 

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Dzoole, Malawi – Il servizio agli anziani in una lettera del movimento I DREAM

Il sito DREAM, dream.santegidio.org, ha pubblicato qualche giorno fa una lettera degli attivisti del movimento I DREAM di Lilongwe e Dzoole, in Malawi. 
DREAM, acronimo di Drug Resource Enhancement against AIDS and Malnutrition, è un programma ad approccio globale per curare l’AIDS in Africa avviato nel febbraio 2002 dalla Comunità di Sant’Egidio, presente oggi in Mozambico, in Malawi, in Tanzania, in Kenya, nella Repubblica di Guinea, nella Guinea Bissau, in Nigeria, in Angola, nella Repubblica Democratica del Congo, in Camerun.
Ecco perché si pubblicano anche qui, in questo blog dedicato alla vita delle comunità di Sant’Egidio nel mondo, alcuni estratti della lettera. Essa è anche un esempio del servizio che le tante realtà della grande famiglia di Sant’Egidio rivolgono agli anziani, nei villaggi, nelle grandi città, negli istituti, negli ospedali.

“Un paio di settimane fa, con un gruppo di amici di Lilongwe, abbiamo deciso di visitare il villaggio di Dzoole per aiutare gli altri membri del Movimento che hanno iniziato ad andare regolarmente a trovare gli anziani. Dai loro racconti, e da alcune visite, ci eravamo resi conto che in quel villaggio ci sono molti anziani che vivono da soli, che non hanno nessuno che li aiuti e si prenda cura di loro.
Siamo rimasti molto toccati dall'incontro con Nathala, una donna che ha più di 90 anni e che vive da sola in una capanna. Nella sua lunga vita Nathala ha avuto otto figli ma solo quattro sono ancora vivi. Nonostante l’età, si ricorda moltissime cose, le piace parlare e raccontare le vecchie storie del Malawi di un tempo.
Nathala era molto sorpresa della nostra visita, ci ha detto che da quando è nata non le era mai capitato che degli estranei si avvicinassero a lei per aiutarla nelle cose concrete della vita quotidiana. Può capitare che i membri della tua famiglia  ti vengono a trovare a casa  e ti offrono un sostegno, ma mai le era accaduto di ricevere supporto da chi non è parente.
Quando ci siamo presentati pensava che fossimo supporter di un partito politico, di questi tempi, con la campagna elettorale in corso (il 20 maggio si svolgono le elezioni presidenziali in Malawi) alcuni politici e sostenitori di partito vanno nei villaggi ad incontrare la gente per raccogliere consensi e talvolta regalano qualcosa, una coperta o un pollo, per dimostrare che il politico di turno è vicino alla gente.
Noi le abbiamo detto chi siamo: parte della grande famiglia della Comunità di Sant'Egidio. Le abbiamo raccontato di come abbiamo incontrato la Comunità, alcuni anni fa, quando molti di noi erano molto malati e di come abbiamo deciso di unirci ad essa formando il movimento I DREAM, per provare a restituire agli altri almeno un po’ del bene e dell’amore ricevuto gratuitamente. 
Abbiamo trascorso molto tempo ad ascoltare i racconti di Nathala e la descrizione delle sue difficoltà quotidiane, come ad esempio la fatica per andare in cerca di un po’ di legna per il fuoco per bollire l’acqua o per cucinarsi qualcosa da mangiare.
Più tardi alcuni dei nostri amici l’hanno aiutata a lavarsi mentre un altro gruppo le ripuliva la casa che non era in buone condizioni.
Poi le abbiamo dato dei vestiti puliti che avevamo portato con noi per donarli agli anziani
Le abbiamo chiesto cosa desiderava la prossima volta, ma ci ha risposto: “Non posso chiedere nulla. A persone che hanno il cuore di donare non bisogna chiedere nulla. Se chiedessi sarebbe come se volessi imporre e comandare”.
È stata molta grata della nostra visita, ci ha detto che il fatto che noi abbiamo fatto il primo passo per cercarla ed entrare nella sua casa ci rende come parenti e che ora lei ci considera come suoi figli e suoi nipoti. Ci ha ringraziato e ci ha detto che spera di rivederci presto. 
Ed anche noi desideriamo tornare al più presto a farle visita”.

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